Femminicidio e femminino

Il problema di fondo sta nel riconoscimento del suo femminino da parte dell’uomo. La radice di ogni altra considerazione è tutta qui. Sotto il profilo psicologico è solo un problema di riconoscimento, identico ad ogni forma di riconoscimento io/altro. Qui gli attori sono però entrambi interni al soggetto, figure che compongono la personalità umana. Se il maschio dentro di me  non riconosce ma rifiuta il proprio femminino, assieme rifiuta la (propria) fragilità, la (propria) dolcezza, la (propria) delicatezza.  Attenzione e cura resteranno obblighi dell’altro, della donna.

Io sarò incapace di gestire il fallimento, di chinare il capo di fronte al rifiuto, di accedere alla sofferenza, il cui stadio primario si manifesta  in forma depressiva. Fase indispensabile per una ri-generazione, dove il lutto si elabora, impedendo che tutto si trasformi in rabbia.

Depressione/elaborazione è   procedura  indispensabile, non  solo per offrire il tempo-spazio psicologico affinché l’evento venga ragionato, elaborato.  Essa consiste anche nella deviazione del percorso pulsionale allo stato del simbolo, di sospensione, di mediazione. L’elaborazione simbolica del lutto, della perdita, del fallimento, evita il passaggio all’atto, l’immediatezza espressiva dell’impulso. In altre parole, il tratto simbolico umanizza la perdita, fa da  mediatore  tra la pulsione e la realtà , evitando che essa si esprima  nel linguaggio primordiale dell’atto come reazione immediata.

La donna, al contrario di ciò che solitamente si crede per una cattiva interpretazione della letteratura sull’argomento,  non è qui oggetto (del desiderio) ma soggetto non riconosciuto (per questo motivo si fa una grande confusione parlando di uomini che uccidono l’oggetto del loro desiderio quando l’oggetto vi si ribella) . La dinamica è la stessa che regola  il rapporto io/legge. Se la legge non viene introiettata-simbolizzata ( non si fa simbolo dentro di me) ma resta un decalogo esterno, potrò anche convincermi di rispettarla per convenienza sociale o personale.  Non l’avrò riconosciuta come “legge mia” ma solo come “legge dell’altro”. Io e l’altro non siamo dentro lo stesso statuto simbolico.  E l’altro assume dignità simbolica solo quando sarà stato riconosciuto quale parte di me. Se la donna, la legge, l’altro, non si fanno simboli interiorizzati, restano soggetti non riconosciuti. Per comunicare sarà necessario   un mediatore culturale, ruolo assunto spesso da figure amicali o familiari, religiose o professionali. Ma in assenza della mediazione o per il fallimento di questa, il linguaggio comunicativo fra due soggetti privi di intermediazione simbolica, degrada alla semiotica primordiale. Diventa l’atto. Preceduto dal verso, dal grido, dal segno offensivo. La parola (“la parole” lacaniana) è il luogo dell’elaborazione simbolica, il salto nell’umano dalla bestialità.  La parola non ha qui  cittadinanza perché non l’ha mai conquistata in mancanza  di un alfabeto simbolico comune che può costituirsi solo dentro la dinamica del riconoscimento.

Se riconosco il mio femminino, non potrò mai uccidere una donna. La sofferenza che proverei solo al pensiero di farlo, me lo impedirebbe. Se vincesse comunque  il moto rabbioso, avrei ucciso una parte di me e trasformato me stesso in un vegetale.

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Don Abbondio ed il capitalista lacaniano: la guerra mondiale non s’ha da fare.

Come non tornare  all’Anti-Edipo, dopo aver elaborato i quattro discorsi “più uno” di Jacques Lacan? È quel “più uno” che fa il tutto, che nega l’umanità, seppur precaria e vacillante  dei quattro discorsi (  il discorso del padrone, il discorso dell’isterica, il discorso dell’università, il discorso dell’analista) . Nei discorsi lacaniani c’è umanità  perché c’è socialità,  poiché il soggetto incontra l’Altro. Ed in quella relazione la pulsione dell’uno viene barrata dal simbolico che la parola dell’altro  rappresenta. 
Da quel conflitto nasce il desiderio,  spinta che consente al soggetto di inseguire “l’oggetto piccolo a” e che ” fa dell’energia primaria dell’animale-uomo  un’energia socialmente utile ( processo che Freud definisce sublimazione) .
Ma è il quinto discorso, ovvero il “non discorso” , quello del capitalista, a negare ogni forma di socialità, illudendo il soggetto con la promessa di un godimento perpetuo, infinito: godi!
La pulsione é qui un flusso continuo, opposto soltanto dalla pulsione dell’altro, non dalla sua parola. Non c’è quello sbarramento simbolico che la parola produce e  che umanizza il rapporto con l’altro. Nel discorso del capitalista il rapporto è fra pulsioni, così come  nel mondo animale è fra istinti: il codice istintuale ordina il passaggio all’atto e l’animale esegue. O si ferma  quando un altro animale più potente impone la propria  pulsione, causando l’aggressione o la fuga dell’animale altro. Ora, come si fa a non rivalutare L’anti-Edipo di  Deleuze e Guattari? Ma solo dopo averlo necessariamente spurgato da una critica ingiusta che  accusava la psicanalisi di sostenere l’assunto secondo cui il capitalismo é dato per natura. Per natura umana?  Una contraddizione in termini, così Jacques Lacanhttps://scrivereinrete.wordpress.com/2023/10/27/la-guerra-mondiale-la-guerra-che-non-ce/ avrebbe liquidato la questione.

Dopo aver depurato L’anti-Edipo da questa errata concezione della psicanalisi, va però rivalutato tutto l’impianto analitico dei  due intellettuali francesi, sia da da un punto di vista sociale che politico, poiché esso sta nella stessa visione lacaniana del mondo. Penso alla macchina-uomo, ai mille piani con cui il discorso faucoultiano, che in qualche modo Deleuze e Guattari  riprendono,   impone una ricontestualizzazione storico-politica della questione, per mezzo dell’indispensabile strumentario filosofico- psicanalitico. 
Oggi quel meccanismo animale analizzato dall’Aanti-Edipo, va messo di fianco (al) e non contro il “discorso del capitalista” lacaniano.  Quelle analisi, ritenute un po’ frettolosamente contrapposte,  tratteggiano senza alcuna contraddizione interna, in modo implacabile, ciò che oggi é sotto gli occhi di tutti. La struttura simbolica,  la legge della parola, l’umanità delle relazioni, stanno cedendo al tratto primario e al suo flusso  pulsione-godimento,  con una opposizione sempre più debole dell’apparato simbolico. Le guerre in corso, genocidi e massacri in ogni dove, vanno  raggiungendo l’apice di quel percorso, di quel tratto primario pulsione-godimento. Una specie di regressione epocale  dell’apparato simbolico, proprio quando ( o proprio a causa di quella, direbbe Galimberti) l’evoluzione razionale raggiunge livelli altissimi nella scienza e nella tecnica.

Qui i due filosofi francesi sintetizzano il soggetto sussunto nell’Es freudiano. 

Le leggi umane, tanto in Occidente quanto altrove, appaiono sempre più fragili innanzi a quel tratto primario che spinge la pulsione al godimento mortifero. È la legge dell’animale che trova opposizione non più nella parola ma in un’altra forza primaria che ad essa si opponga. È guerra, si torna ad Hobbes. E pare di assistere a un paradosso. Ovvero,  quel capitalista lacaniano, sacerdote del godimento infinito, non consentirà che una guerra totale distrugga tutti gli “oggetti piccoli a”, materiale con cui ha sedotto  ed imbrigliato il soggetto umano nella religione del godimento infinito.
Una guerra totale sarebbe la sconfitta definitiva del capitalista lacaniano, poiché verrebbero distrutti in  brevissimo tempo tutti gli “oggetti piccoli a” e nel contempo  la struttura industriale ( le macchine, i mille piani di Deleuze e Guattari) che ne consente l’infinita produzione e  riproduzione. E qui il fondamento della improbabilità  di una guerra totale, proprio grazie alla parola,  sí dell’Altro, ma di un altro anomalo, che all’opposizione simbolica ha sempre risposto con un dito medio ben in vista. Penso  al Berlusconi tratteggiato da  Recalcati  in “Patria senza padri”. Grazie alla   bella intervista di Christian Raimo si rende il testo recalcatiano di “Cosa resta del padre?”, pubblicato un paio d’anni prima, divulgabile e comprensibile anche ai   non addetti ai lavori. Il paradosso sta nel fatto che la parola non è la parola della legge simbolica ma è la parola dell’animale parlante ( ed anche qui dobbiamo rischiare la contraddizione in termini di cui un paradosso onorabile deve nutrirsi necessariamente) che teme l’interruzione di quel flusso,   ormai assunto come infinito, tra pulsione e godimento.
Dunque, questo è il paradosso: l’uomo perde la parola, rischia la guerra totale e l’animale si fa garante. L’unico in grado di avere l’autorità e la forza per sconfessarla. l’animale che si appropria della parola umana, surrogandone la  funzione simbolica. Perché l’animale, il capitalista lacaniano, non può consentire che si interrompa  il flusso infinito del godimento.

“Nessuna guerra totale, il godimento infinito non si interrompa. Possiamo consentite solo guerre locali disseminate in tutto il mondo. Anche  nella loro  macabra rappresentazione esse contengono comunque in sé il seme del PIL, adesso spostato sempre più su prodotti bellici. E l’economia mondiale gira, ora, in periodi di crisi, proprio grazie a quel seme”.

“ovunque, ora senza sosta, ora discontinuo. Respira, scalda, mangia. Caca, fotte” .

L’incipit con cui i due intellettuali francesi sintetizzano il soggetto capitalista sussunto nell’Es freudiano.

Da “L’anti-Edipo”- Gilles Deleuze, Félix Guattari

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Xxxx

Axcy, ccdcc

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La Serracchiani tra Serra e Saviano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se dice una corbelleria la Serracchiani , non ci resta che ridere. O ci si indigna come fa Roberto Saviano ( ) .

Se la riprende Michele Serra, giustificandola sotto l’ombrello del tradimento di fiducia, mi viene da piangere. Il pianto si fa isterico quando Serra giustifica la posizione della Serracchiani col tradimento della fiducia del migrante che stupra in casa nostra. E bisogna proprio credergli, perché aggiunge che lui ama i migranti e li andrebbe a prendere, là dove sono, in aereo ed in nave. Forse sarebbe stata l’occasione buona per dirne quattro contro l’Occidente che crea in quei luoghi i motivi dell’esodo, armando una fazione contro l’altra e la peggior risma di criminali autoeletta a “Stato Sovrano”. Lo ha fatto e lo fa, l’Occidente, tradendo quella fiducia che le popolazioni – a nostro dire – primitive rimettevano nel nostro progresso civile e culturale. Se tanto ama i migranti, Serra, tanto dovrebbe odiare chi ha ridotto le loro terre in mercati d’armi, di organi, di uomini e di donne e di schiavi. L’Occidente di Serra questo ha fatto e questo fa, tradendo la fiducia che il mondo dei miserabili rimetteva nelle sue mani.

I cosiddetti intellettuali non colgono il centro della questione e cadono nell’inganno dialogico in cui si è tombata da sola – minibus? – la Serracchiani. Probabilmente a sua insaputa. Ma una malizia va aggiunta: Serra interviene solo dopo Saviano per bacchettarlo, perché quest’ultimo avrebbe ingiustamente tradotto la frase della Serracchiani col peggior topos linguistico della Lega.,

Proviamo a sparigliare le carte. Reset logico-cognitivo, si ricomincia.

Se si vuole parlare di migranti e di immigrazione, lo si faccia nel merito. Se il centro dell’attenzione è la gravità e la disumanità dello stupro, si discuta di questo. Se poi s’intende aprire un dibattito sulla “fiducia” e sul “tradimento” lo si faccia con l’approccio degno della delicatezza del tema e con l’acume necessario per non cadere nelle trappole già tese che l’una e l’altro , prima ancora che nella storia del loro lessico, hanno incise nel loro statuto semantico primario.

Parlare di fiducia, incrociando stupro ed immigrazione è , senza se e senza ma, assetto logico-cognitivo razzista. E si è anche stupidi: un razzista intelligente, per parlare di fiducia ed immigrazione, avrebbe discusso intorno ad un altro reato, più prossimo alle esigenze di sopravvivenza , come furto e rapina. E magari avrebbe ottenuto più consensi anche nello stesso PD. Ma tant’è: ormai anche le pietre sanno che il 90% degli stupri e delle violenze sulle donne sono ad opera di coniugi, compagni, padri. Amici di famiglia. Tutti uomini italiani che quotidianamente rompono il patto di fiducia familiare, cioè quello che li lega alla loro comunità primaria. Altro che immigrati. Si avvisi la Serracchiani.

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Lavoro, dignità e crisi dell’Occidente.

Risultati immagini per beppe grillo arrabbiato

A me Grillo non piace come politico, ammesso che sia un politico. Non mi piace. Mi faceva ridere ma non mi piaceva neppure quando lo guardavo in TV. Non mi è mai piaciuta la sua volgarità verbale. Ciononostante ridevo e coglievo nella sua comicità la denuncia sociale. Non mi piace neppure adesso con i suoi stupidi occhiali colorati da figo settantenne. Come non mi piacciono tutti i fighissimi settantenni con quell’aria da immortali, quelli che  scambiano  pantaloni e maglioni  con i nipoti.  Grillo non mi ha mai incantato per la veemenza del linguaggio, per il trash che tanto seduce e che gli sta appiccicato addosso come l’aureola sulle teste di Michele Serra e di Massimo Gramellini.

Non mi ha mai  incantato il “vaffa”. Non mi convince il sistema di selezione e di elezione della classe dirigente del M5S,  non mi convincono tante altre cosucce del M5S.  Ma non mi piace neppure che gli elettori di quella forza politica vengano  sarcasticamente  definiti “grillini”. Non mi piace che il giornalismo conii un insulto e che per “libertà di stampa” l’insulto diventi una lecita condanna irrevocabile.   Ma questo dipende dai miei gusti: non mi piace lo sfottò.

(inizio digressione) – Lo sfottò.  Quello dei talk televisivi, quello ebete  agli angoli delle strade per un calzino fuoriposto o per un naso enorme  fuori contesto, diciamo così. Quello  colto e spregiudicato della grande firma sul grande giornale. Quello  che gioca col luogo comune e punta sempre sulla  predisposizione della ignoranza ad accogliere  l’insulto. Molte grandi firme  scrivono per gli stanziali di zona,  per quelli che vivono agli angoli delle strade e si sentono molto machi se sfottono,  se si toccano l’uccello in media ogni quindici minuti o se , con la stessa frequenza,  sputano per  terra e si stravaccano su un’auto in sosta. Il trash è multistrato ed ha molti livelli sociali.  Spettegolare era un tempo attività da comari (la letteratura romantica  ne è piena zeppa, presa in carico e diffusa dalla comicità del ‘900), un impiego dismesso dalla donna e lasciato in eredità all’ebete del terzo millennio. L’unico che poteva  accoglierla senza opporre il sacrosanto diritto al  beneficio d’inventario. (fine digressione) .

Dunque, del M5s mi piace  il tentativo di allargare la visione del mondo. Dal lavoro all’energia, al welfare, alla burocrazia, al rapporto produzione/reddito/lavoro/impresa/società. Quel tentativo fa i conti con la realtà più di quanto i detrattori possano immaginare.

La realtà di un lavoro che, per ragioni strutturali del sistema economico,  non può più garantire un reddito che consenta “una vita dignitosa” . Fondamento delle società occidentali, le cui  Costituzioni   furono scritte in accoglimento convinto della “Carta dei diritti dell’uomo “. Ciò che oggi è in gioco  non è  una semplice questione politica,  per cui si debba scegliere tra un orientamento più o meno di destra   o di sinistra. E’ in questo senso, a parere mio, che il M5s non è di destra né di sinistra. E’ in gioco la dismissione della cultura occidentale, tanto cara alla Fallaci ed ai suoi estimatori. A minacciarla, però, non sono i musulmani e neppure  è l’ISIS col suo terrorismo. Non la valanga di immigrati che arrivano ( a meno di non stoccarli sulle coste del Nord Africa in un diffuso e meglio organizzato sistema carcerario alla Guantanamo). Non  l’esodo epocale che pure ci travolgerà. Tutto questo è conseguenza, non causa. A minacciare il nostro status sociale e culturale siamo noi. E’ il nostro sistema produzione-consumo ormai insostenibile, intelaiato su strutture culturali ed economiche obsolete. Se il lavoro non consente ai più una vita dignitosa, a meno di non trasformarsi in sfruttamento fino alla schiavitù, esso va cambiato oppure si dismette l’idea illuministica su ci l’occidente si fonda. E con essa  quella di Stato sovrano. A minacciare questa sovranità non è  tanto la UE quanto l’influenza delle grandi lobby, giocata con pressioni  sugli stati nazionali e nelle stesse   istituzioni europee, spesso attraverso   rappresentanti nominati od eletti in quelle istituzioni.  La  guerra che prolifera in ogni parte del mondo ed in periodo di crisi,  dovrebbe costituirsi come un ossimoro. Ed invece i più accreditati  economisti sussurrano essere  un volano dello sviluppo. Sussurrano e arrossiscono.  Meno guerra oggi significherebbe  meno PIL, più disoccupazione, meno commerci, meno ricchezza per tutti.  E’ così che il nostro sistema economico legge il dato. L’unico capo di Stato a denunciare oggi  questo ossimoro, è il Papa.

Per mille motivi, non da ultimo a causa del progresso tecnologico che consente ed impone un risparmio di ore di lavoro ormai incompatibile con la piena occupazione (Il sociologo De Masi tratta qui il problema con dati statistici e scientifici inconfutabili  https://www.linkedin.com/pulse/la-violenza-della-calma-domenico-de-masi ),  il lavoro dismette la sua funzione sociale ed espelle dalla sua ontologia  la dignità. Essa degrada alla capacità di acquisto del consumatore, al volume di merci  a cui il lavoro gli consentirà di accedere. A qualsiasi costo, anche mettendo a rischio la sua salute e quella dell’ambiente in cui vive (il caso ILVA di Taranto è emblematico).

In questo nuovo tentativo di aprirsi al futuro, il m5s inserisce il reddito di cittadinanza, legato a doppio filo alla dignità della persona ed al lavoro.  Se non cerchi lavoro lo perdi. Un modo per coniugare dignità e lavoro: per darti il minimo di sussistenza non ricorro  allo sfruttamento ma lego la misura al tuo impegno nel seguire un percorso di riqualificazione e ricollocamento  professionale (non uso con puntiglio il temine “riciclare”. Se se riferito alle persone, è gravemente offensivo della dignità umana). Rimetto nelle tue mani la tua dignità,  scongiurando  l’alternativa o dignità o reddito. Leggo più in questo tentativo di prendere il futuro nelle proprie mani,  una postura in forma “telemachia” https://it.wikipedia.org/wiki/Telemaco#I_viaggi_di_Telemaco_a_Pilo_e_Sparta  che non in quella rievocata da Massimo Recalcati  in favore di Matteo Renzi , ripetuta come un mantra ad ogni occasione propizia, da ultimo al lingotto http://www.huffingtonpost.it/2014/07/02/matteo-renzi-cita-generazione-telemaco_n_5551227.html.

Pare che il   ministro della cultura del prossimo ma improbabile governo Renzi,  sarà  Massimo Recalcati. Pare, dicono, voci. https://www.youtube.com/watch?v=6kU25zKTijM&t=19s

 

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Il viaggio

 

Entra in questa poesia

tra rime bastarde

proverai quel che provo.

Parole silenziose

carezze ai tuoi seni

e metafore sottili

per stringerti forte,

spogliati

dalle paure e dai sogni

d’ogni abito consumato

dal tempo:

emozioni malate.

Brucia i ricordi

come lo zingaro la casa,

memoria è l’inganno

che nutre quel sangue

di libertà che uccide.

Barca vuota

naviga

nel mare di passioni,

sensazioni inattese

scogli di notte.

Ciò che senti

in questi versi,

stradine dell’ignoto

tenere paure

fiori di campo.

Tu rinasci amore mio.

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Poesia fragile

Non lasciarmi la mano,
tienimi stretto il pugno 
forte l'abbraccio al corpo.

Se morde fragilità, aggrappati
alle mie ferite.
Spalla a spalla  
obliqui
tentiamo la vita.

Non mollare la presa,
se ti graffio non scappare
ci sarà tempo per ferirmi.
Occhio al bersaglio e punta 
su fragilità  mia. 

Resiste, resisterà testarda 
la pazienza al dolore.
Se oscilli come un fiore 
stanco
immagina, immagina forte 
e resta lì
dentro la speranza  attorcigliata
raschia il fondo  all’apparenza
tenta l'impossibile. 

E’ resa la realtà

 

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L’energia generativa Io/Altro e la follia Io/Io

 

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L’energia psichica si forma all’interno di poli relazionali. L’Altro, la relazione con lui, rappresenta  una fonte inesauribile ed imprescindibile di energia.

L’Altro si oppone al desiderio dell’Io semplicemente con la sua presenza, anche quando  sembra assecondarlo. La piccola frustrazione, il ridimensionamento dell’immaginario, l’opposizione  dell’Altro,  rende reale e praticabile il desiderio. Da astratto,  il desiderio si fa reale. Si umanizza.

Io-Altro è il campo energetico in cui il desiderio nasce e rappresenta nel contempo  il territorio in cui esso si fa sano.

La mancanza di relazione destina il soggetto al coma psichico. La depressione innesca un circolo vizioso di allontanamento dalla realtà,  verso una dimensione solipsistica regressiva,  in cui l’Altro diventa un fantasma,  una  costruzione immaginifica con cui il soggetto si relaziona in modo privilegiato.

L’Altro-reale scivola sullo sfondo,  per  occupare il  ruolo sussidiario di funzione materiale, degradato a produttore di beni e servizi utili alla sussistenza.

La vita emotiva si ripiega  all’interno di un  rapporto fantasmatico, dove l’Altro-immagine si forgia   alla stregua di un   fantasma,  per poi essere “esportato” sull’Altro-reale che  finisce  per perdere la propria soggettività poiché  essa non nasce da un riconoscimento dentro la relazione  Io-Altro, bensì nell’asfittico ed immaginifico territorio Io-Io.

Il riconoscimento dell’Altro non avviene più nel rapporto relazionale ma nell’esaltazione    solipsistica. Il fantasma dell’Altro che vive dentro il soggetto viene sovrapposto all’Altro reale.

Ci capita spesso di essere accusati da qualcuno di formulare  pensieri che non hanno mai sfiorato la nostra mente. E’ molto probabile che il nostro interlocutore stia esportando  su di noi una figura fantasmatica prodotta da una relazione a lui interna (Io-Io). Adesso egli  sovrappone  quel fantasma alla nostra persona a causa di alcuni  nostri aspetti  caratteriali  che ne evocano la figura o per motivi contingenti al contesto.

Ciò avviene  anche a causa della  energia  creata  all’interno del proprio sé, nello stagno emozionale Io-Io e non nello scambio fluviale Io-Altro. Si tratta di energia incontaminata e, proprio per  questo,  malata (l’energia psichica è una continua produzione  che si alimenta di  contaminazione  dell’Altro). Un caso di autosufficienza ingannevole in cui la mancanza di dipendenza rinvia alla purezza del  sovrumano.

Al contrario, la contaminazione Io-Altro alimenta l’energia in comune e riconduce il soggetto dalla dimensione immaginaria a quella reale.   Il soggetto ed  il rapporto si umanizzano. Essa ferisce  mortalmente il solipsismo,  ne inquina  la purezza  incontaminata, sottraendo l’Io  al delirio d’onnipotenza.

Quando il  fenomeno da individuale ed eccezionale si fa collettivo e  normale,   genera consessi sociali  fondati sull’Io.  L’Altro viene degradato a funzione materiale, dove resterà segregata  la propria dignità, finché Io-Altro  non accedono al  reciproco riconoscimento,  dentro un generativo rapporto biunivoco.

 

P.S.:  Per una migliore comprensione si rinvia alle categorie lacaniane: Io – Altro – Immaginario – Reale

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Ulisse, il capitalista lacaniano

ulisse-del-bardo

In un recente articolo apparso su La Repubblica,  Massimo Recalcati mette a confronto l’Ulisse di Dante con l’Ulisse omerico, per evidenziarne le diverse prospettive rispetto alla conquista della  “Conoscenza”. L’Ulisse dantesco viene immediatamente messo in relazione con Edipo,  cogliendo  il comune tragico destino. Ulisse è travolto dall’impeto del mare appena  oltre le colonne d’Ercole, nel tentativo di accedere alla conoscenza illimitata,  all’infinito sapere.  Anche Edipo è preso dalla brama di  “conoscere”, di conoscere la sua origine, l’intimo del proprio sé. Non ascolta  consigli, non si accontenta di essere ricco e potente. Edipo vuole sapere.  Questa ostinazione condurrà anche lui  oltre le  colonne d’Ercole, oltre  l’umana sopportazione di un  sapere senza limiti.  Quando Edipo impara la propria storia, cade in una prostrazione estrema. Dopo aver appreso di essere fratello dei propri figli, sposo della propria madre,  egli non potrà più guardare il mondo. S’ infligge la cecità . Un po’ come accade ai bambini che si coprono gli occhi pensando di  non essere visti. Edipo  Sarà esiliato dalla comunità degli uomini.

Quindi Recalcati si dedica all’analisi dell’Ulisse omerico. Qui coglie nel desiderio di conoscenza, nel viaggio lontano dalle proprie radici, non il gesto di un delirio di onnipotenza  ma la forza generatrice di conoscere per migliorarsi,  per tornare fecondo. Un viaggio verso la conoscenza ma nel perimetro della umanità, contrassegnato dal gesto del  ritorno. Ulisse torna alle proprie radici: non abbandona Telemaco, non dimentica Penelope, riconosce il debito filiale verso  Laerte.

A questo punto potremmo arricchire l’analisi con un altro aspetto critico.

Horkheim nel suo famoso saggio “Dialettica dell’Illuminismo, riferendosi all’Ulisse omerico,  sottolinea: ” la maledizione del progresso incessante è l’incessante regressione “. Dinanzi all’apparizione delle  sirene Ulisse si fa legare al palo ed ordina ai compagni di tapparsi le orecchie. Due strategie per non cedere al fascino delle sirene. I compagni possono così remare (lavoro manuale) senza lasciarsi distrarre dal canto ammaliante,  mentre egli riserva per sé la vista (primato platonico della vista al quale  Edipo rinuncerà infliggendosi la cecità) ). Per Horkheim, Ulisse è già il capitalista che governa il lavoro dei suoi compagni. Solo in questa rigida  divisione gerarchica di ruoli  è però possibile salvarsi. Non nella con-divisione della conoscenza ma nella sua divisione .

A ben guardare, dietro la visione di Horkheim  si cela in embrione  la narrazione lacaniana del “discorso del capitalista” , così come il  capitalismo industriale dell’800/900 fu l’espressione embrionale della sua evoluzione postmoderna . Quella forma grezza hegeliana fondata sulla struttura dicotomica servo-padrone, evolverà nell’assenza di limite del capitalista lacaniano  ipermoderno .  Anche Il pensiero pasoliniano rappresenta un indiscusso contributo in questa direzione.

Dunque, l’Ulisse omerico torna sì alle sue radici, ma solo dopo aver conquistato la conoscenza. Il ritorno è qui il privilegio del vincente (tanti suoi compagni perdono la vita perché relegati ad una funzione esecutiva, senza accesso al sapere) che ha sfidato il limite. Remunerazione del capitalista che ha rischiato. Egli  è tornato potente vincitore ed ora può travolgere chiunque gli si opponga. Non ha più limiti. Il ritorno alle radici è qui privilegio del vincitore-conoscitore. Gli altri non tornano.  Quella grezza e primordiale divisione tra godimento artistico (Ulisse guarda ed ordina) e lavoro manuale (i compagni eseguono e remano), preordina ad una salvezza condizionata: Solo se rinunci a conoscere ed esegui gli ordini ti puoi salvare. Il futuro sarà l’infinita potenza dell’Ulisse ipermoderno –  discorso del capitalista lacaniano – il quale, in virtù dell’assenza di limite, non ha più un corpo. Si eclissa nel mercato globale seminando figli senza padri.

Se si potesse riscrivere la scena omerica delle sirene col senno di poi, immutati resterebbero solo i compagni-figli di Ulisse che  remano mentre il capo senza più un corpo li sorveglia da un non-luogo. Ulisse è anche il Grande Fratello orwelliano.

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La Costituzione: libertà di, libertà da.

berlusconi

Uno dei principi  fondanti della filosofia, di qualsiasi filosofia, sta nell’assunto: la libertà di un individuo  dipende in gran parte dal suo  grado di indipendenza  rispetto al  bisogno. “La libertà di”  è in stretta relazione di dipendenza  con la  “libertà da”.

Proviamo a partire da qui. Quest’epoca  è segnata dall’espansione illimitata “della libertà di” (fino all’arbitrio) e dalla concomitante evaporazione   della “libertà da” (diritti).

Un nuovo orizzonte generazionale. Una società liberata dal “padre padrone” freudianoriacquista respiro e cerca di realizzare il “desiderio lacaniano” nel solco della propria vocazione. Non contro la legge ma dentro la legge. Una generazione che si ribella, certo, e lo fa,  contrariamente a quella precedente,  non per  acquisire illimitata libertà ma per affermare il proprio desiderio, nel solco della legge. Non contro la legge del padre  ma per affermare il proprio desiderio anche contro quello del padre.

 Massimo Recalcati, in buona sostanza, alla Leopolda ha esaltato il diritto/dovere  di questa generazione  orfana di pardi, di  salpare alla ricerca del Padre. Una generazione che non resta inerme  in attesa di Ulisse ma che muove il passo e  si fa carico del fardello dell’assenza. Una generazione che  parte per riempirla.

Il rischio che Recalcati  non vede, in questa pur giusta postura  dinamica che riconosce al figlio e che  per lui rivendica,  sta dentro il nostro tempo. Un rischio  incastonato tra le  dinamiche politiche e sociali ( che potremmo metaforicamente paragonare ai Proci)  in cui il giovane Telemaco sembra impigliato. Proprio quando  crede di prendere il largo, convinto di seguire la sua strada, Telemaco è all’amo dei Proci ,  trascinato da  una  lenza lunghissima , che segna la distanza tra lui e loro ma che al contempo ne sintetizza la sudditanza.   Telemaco segue la nave che punta alla distruzione definitiva di Itaca.

Si tratta di un mondo ormai avviato alla graduale cessione di molti  diritti collettivi ( che assicuravano la libertà dal bisogno) a favore del rafforzamento di molti diritti privati (libertà di).  L’idea portante ( a sua volta  ideologica) di quest’assunto, s’incentra nella formula: più i privati hanno libertà di azione e di impresa, più aziende si creano. Più aumentano i posti di lavoro ed il benessere collettivo, più il cittadino spende. Più lo Stato incassa tributi e  più  la mano pubblica  può provvedere a opere collettive ed al  welfare, assolvendo così alla sua funzione redistributiva. 

Un sunto  CETIM della più antica teoria dello “sgocciolamento” –  rivelatasi menzognera, matematica e statistica alla mano –  che ha prodotto benefici solo quando lo Stato è entrato mani e piedi nell’economia (piano Marshall, sistema keynesiano) , mitigandone gli effetti disastrosi  che oggi raccogliamo dopo l’esilio  definitivo della mano pubblica dal mercato: la ricchezza si concentra e non “sgocciola” più verso il basso. Pur di non abbassare ulteriormente l’occupazione, oggi si cedono diritti personali, lavorativi  ed ambientali. Il tutto a favore dell’impresa. Di conseguenza, il nuovo assetto del sistema lavoro-impresa-ambiente produce un ulteriore moltiplicatore per la concentrazione di ricchezza, ed il ciclo economico diventa un moto pendolare perpetuo stimolato dalla “libertà di” per la  inarrestabile erosione  della “libertà da”.

La svista del moderno Telemaco sta nel valutare poco e male i rischi sociali che un’elevata  concentrazione della ricchezza produce. Egli chiede a gran voce (riforma costituzionale)  uno Stato più agile, più veloce nel legiferare. Una burocrazia snella, con poche regole da osservare. Una struttura di comando efficiente ma soprattutto efficace e rapida  nella realizzazione dei suoi obiettivi.  Un’architettura istituzionale improntata al decisionismo, con pochi interlocutori interni e pochi interlocutori esterni. Sostanzialmente chiede di poter realizzare  una struttura statale che si adegui alle strutture aziendali e che possa con esse interloquire sullo stesso piano di efficienza e decisionalità.

Il sogno di Telemaco altro non è che lo Stato-Azienda  concepito dal più feroce dei Proci (Berlusconi), oggi  riproposto in maniera meno spudorata, e per questo più subdola,  per l’assalto definitivo ad Itaca . Si avvisi Massimo Recalcati

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La invidiabile Costituzione italiana

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Il 4 dicembre 2016 i cittadini italiani sono chiamati ad esprimersi circa  il cambiamento di oltre 40 articoli della  Carta costituzionale.  E’ quindi necessario conoscere la Costituzione per poter poi valutare la bontà delle modifiche proposte.   Pare  questa una buona occasione per avvicinarsi alla lettura attenta della nostra Costituzione. Assetto normativo  finora meritevole di aver tenuto  assieme anime politiche molto distanti e visioni del mondo davvero variegate , sotto il profilo economico, giuridico, etico e religioso.

Fuori  d’ogni retorica storicistica, non  è superfluo ricordare che la  Carta nasce da una complessa e profonda mediazione fra forze politiche e  visioni di società  assai diverse,  ma tutte radicate sul comune denominatore composto essenzialmente da tre valori fondanti: uguaglianza, libertà, giustizia.

Tre vocaboli  oggi utilizzati con  spensierata  disinvoltura, quasi fossero ormai assunti una volta per tutte,  ma che solo 70 anni fa erano impronunciabili,  pena la  vita .  Sia durante  il periodo fascista che col sopraggiungere della ideologia nazista, quei tre termini rinviavano a significati imposti con la forza della violenza, diametralmente opposti a quelli con cui oggi li decliniamo. La violenza nazifascista  eccedeva il perimetro  del corpo dell’altro,  infilandosi nel suo linguaggio,  fino a violentarne il senso.

L’uguaglianza era strutturata  in linea sociale orizzontale, a strati preordinati in forma  gerarchica,  ma sempre e comunque  all’interno dell’appartenenza fedele a quella ideologia. La libertà veniva postulata nell’arbitraria pretesa  dei pochi sui tanti, seguendo il modello di uguaglianza appena descritto.  Va da sé che il sistema giustiziaaltro non era che un’architettura  normativa per rendere formalmente legittime  quelle forme di (dis)uguaglianza e di (il)libertà,  preventivamente  violentate nel senso linguistico.

Una premessa importante, questa,  che deve far riflettere sul valore del senso, di termini e  di linguaggi, sul significato profondo delle parole,  affinché si possa decidere con scienza, prima ancora che con coscienza, sul mutamento di senso che certe operazioni giuridiche  e normative spesso nascondono.

Se riusciamo ancora a  convivere, sia pur con tanti difetti e pur dentro contraddizioni sociali assai vive, lo dobbiamo ad un assetto normativo primario (la Costituzione) che riesce ancor oggi a tenere assieme le ragioni dell’uguaglianza e quelle della libertà, sia pur dentro innegabili  tensioni e contraddizioni . Se la libertà non si è espansa fino a negare la dignità umana dell’altro (molte forze spingono in quella direzione), lo si deve soprattutto alla diffusa protezione della  uguaglianza e della dignità umana disseminata in diversi articoli  della Carta  (parte I) a cui la parte II (quella che si vuole cambiare)  s’informa . I pesi e i contrappesi dei diversi organi costituzionali, la cui disciplina viene  articolata nella II parte, altro non è che la strutturazione amministrativo-burocratica che dovrà consentire di realizzare, al legislatore ordinario, quei  valori fondanti puntualmente descritti e disciplinati nella I parte della Costituzione.  La Carta, prima ancora che una strutturazione normativa articolata,  è un progetto di società. Un’idea di mondo  che tiene assieme la libera intrapresa, la proprietà privata ed il lavoro con la dignità umana e l’uguaglianza fra le persone:

“…. senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art.6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali.” (art. 3 della Costituzione)

Dunque, ogni modifica strutturale degli organi istituzionali,  oggi organizzati e bilanciati per garantire un certo equilibrio rispetto alle loro prerogative ed ai loro poteri (il numero dei membri che compongono gli organi istituzionali  è parte sostanziale di questo equilibrio) , deve essere attentamente valutata rispetto alla realizzazione dei nuovi equilibri fra competenze e poteri dei diversi organi.

Quest’aspetto  è fondamentale per capire, ad esempio,  se la riforma proposta non spinga surrettiziamente verso una Repubblica presidenziale, accentrando poteri sul Governo ed  alleggerendo  la rappresentatività dei cittadini in Parlamento. Questo può accadere  anche attraverso  una legge elettorale che preveda abnormi premi di maggioranza e che strizza l’occhio   più l’astensionismo  che alla partecipazione  dei cittadini.

Diversi sono gli organi istituzionali interessati, direttamente o indirettamente,  dalla riforma costituzionale proposta col Referendum del 4 dicembre 2016.

  • Parlamento (per l’accentramento di diverse funzioni oggi di competenza del Senato e delle Regioni)
  • Senato (per competenze, funzioni  e numero dei componenti)
  • Elezione presidente della Repubblica (sarà eletto solo dal Parlamento )
  • Regioni (cederanno diverse funzioni e competenze per materia allo Stato)
  • Corte Costituzionale ( l’equilibrio dei membri cambia in funzione della diminuzione del numero dei senatori) .

Ricordare che la Costituzione italiana è stata da più parti definita “la più bella del mondo”, potrebbe non bastare a scongiurarne lo sfregio. La bellezza va tutelata con accanita convinzione e con grande partecipazione. Votare il 4 dicembre è indispensabile poiché i referendum costituzionali non sono soggetti a “quorum” . Per cui basterebbero pochi vandali  ad  imbrattare per sempre un capolavoro.

 

(testo scritto il 4 ottobre 2016)

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